FIGLI DI UN DIO MINORE – viaggio nel fangoso mondo della palla ovale (parte 2)

“Adesso so che quando si avanza uniti ci sono possibilità di successo. Adesso so che se non andrò in meta io, ci andrà un mio compagno. Adesso so che cosa vuol dire rispettare un avversario che e` a terra. Adesso so che potrò cadere e perdere il pallone, ma un compagno sarà pronto a raccoglierlo e a lavorarlo per me. Adesso so che bisogna avere sempre qualcosa da portare avanti. Adesso so che si può anche perdere, ma non ci si deve mai arrendere. Adesso so che per ottenere qualcosa bisogna essere determinati. Adesso so che correre non vuol dire scappare, ma andare incontro al futuro. Adesso so che affrontare la vita sarà un gioco da ragazzi e che, se la vita è un gioco, il rugby è una gran bella maniera di viverla!”
(Mirko Petternella, giornalista sportivo per la Rai, scomparso pochi anni fa)

Più che la passione per lo sport, forse è proprio questo il motivo per cui delle persone all’apparenza sane di mente continuano a darsi botte su botte in partita e in allenamento, a prendere fango e freddo con la consapevolezza che la tua unica gratificazione sarà una birra a fine partita con i tuoi compagni e con i tuoi avversari, a prescindere dal risultato, e la certezza di aver dato tutto quello che potevi dare per vincere con i tuoi compagni.

Perché, come dicono tutti, il rugby è uno sport di sacrificio e probabilmente è lo sport di squadra per eccellenza. Quando devi avanzare devi conquistare ogni centimetro, e da solo non puoi farlo. Obbedendo alla regola “avanzare, sostenere, avanzare ancora”, prendi la palla sfidi gli avversari, cerchi di star su e di andare avanti il più possibile e poi ti fai stendere dall’avversario di turno, lasciando ai tuoi compagni il compito di tener lontani i “cattivi” da quel pallone che deve essere solo e soltanto tuo. Saranno loro a pulire il punto di incontro, saranno loro a preoccuparsi di mantenere il possesso della palla  e lanciarsi nell’ennesimo assalto alla trincea nemica. Tu il tuo lo hai già fatto. Devi solo  lasciare la palla e aspettare steso nel fango che la gente si disperda per poi rialzarti, schierarti e ripartire all’attacco, per aiutare gli altri a non buttare al vento la fatica di questa avanzata.

Ma più che nell’attacco, lo spirito del rugby forse lo cogli nella difesa. La difesa schierata è una vera e propria trincea. Ogni maledetta domenica si rievoca la battaglia del Piave. Da una parte gli “italiani” di turno che lottano per proteggere i propri confini, dall’altra gli austriaci e i tedeschi. Il grido “non passa lo straniero” riecheggia nel cuore e nella testa di tutti i quindici  giocatori senza palla. E ogni giocatore sa che se vuole fermare questo straniero maledetto deve muoversi insieme agli altri e dare tutto se stesso, nonostante dare tutto se stessi non basti. Perché puoi essere il più forte placcatore del mondo, ma se tutti i tuoi compagni non ti seguono è inutile. Eppure ti butti sul soldato nemico con tutto quello che hai, mettendo in conto che puoi anche farti male, ma non importa, perché sai che chi ti sta accanto in questa battaglia campale si aspetta proprio questo da te e sarà pronto a fare lo stesso tra pochi secondi. È uno sport di fiducia il rugby, dai tutto perché sai che gli altri lo faranno.

Di certo non stiamo parlando di uno sport leggero. In molti sport scendi in campo con la speranza di non farsi male. Quando varchi le soglie di un campo con la palla ovale in mano speri solo di non fartene troppo, perché è proprio un peccato abbandonare lo spettacolo del caos ordinato di una partita di rugby.

E poi c’è un momento di pura magia. Alla fine di ogni partita accade sempre puntuale il miracolo del terzo tempo, il miracolo di 30 energumeni, che dopo essersele date di santa ragione per ottanta minuti si trovano insieme per mangiare insieme e bere una birra… anzi facciamo 4 o 5. Citando un grande luminare, tal Gianrico Rossi di Piacenza, molte squadre di rugby nelle categorie minori si possono descrivere così: “il nostro è un gruppo di alcolizzati e ubriaconi che si ritrovano per bere, poi tra una sbronza e l’altra si allenano e giocano. Vinciamo anche. Però siamo fondamentalmente degli ubriaconi”. Forse al di là di tutto è proprio questo il bello di questo sport. Dare il 120% in campo, arrabbiarsi per ogni errore tuo o degli altri, ma sempre con un rispetto assoluto degli altri, siano essi compagni, avversari o direttori di gara. Però dopo la partita finisce tutto. Dopo c’è la tregua. Non ci si prende troppo sul serio e non si continua a serbare rancore, neanche con un naso grosso come un’anguria. Si rimane con una mentalità amatoriale anche nel professionismo più serio. E prima di ogni giocatore viene sempre la squadra. Forse, in fin dei conti, questo essere figli di un dio minore ha salvato questo sport. Non sono ancora arrivati i miliardi a rovinare tutto come nel calcio. Noi rugbisti siamo e resteremo figli di un dio minore. Per fortuna.

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FIGLI DI UN DIO MINORE – viaggio nel fangoso mondo della palla ovale (parte 2)ultima modifica: 2015-05-30T20:21:04+02:00da pro276
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