FIGLI DI UN DIO MINORE – Alla scoperta del mondo fangoso della palla ovale

Ho il piacere di intervistare Chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, chef, personaggio televisivo ed ex rugbista.

Innanzi tutto, la prima domanda giusto per darmi un tono da giornalista serio: Le devo dare del lei o del tu?

Del voi grazie… No ma scherzo, dammi del tu.

Ora iniziamo con le domande serie: cosa ti spinge qui a Piacenza?

Beh sono qui a Piacenza per partecipare ad un evento molto bello, “Sfida il campione”, nell’ambito del MOvember. Sono stato contattato dai miei amici ed ex avversari del Lyons ed ho accettato molto volentieri, cogliendo anche l’occasione per salutarli dopo tanto tempo. Sono molto contento di poter dare il mio contributo a questa campagna, nata in Australia, che invita gli uomini a farsi crescere i baffi per sensibilizzarli sul tema, non sufficientemente pubblicizzato, del tumore alla prostata e ai testicoli.

Secondo te, per quale motivo persone, almeno sulla carta, sane di mente iniziano a giocare a rugby? Cosa le spinge a prendersi botte e fango per 80 minuti?

Forse inizia tutto per incoscienza. Quando ti approcci a questo sport da piccolo non sei tanto consapevole di quello che comporta, poi andando avanti la passione fa il resto. Io ho iniziato a dieci anni, anche perché a Frascati, la mia città d’origine, il calcio non mai attecchito completamente. Mi era stato consigliato come cura per la scoliosi…

Quindi possiamo spezzare una lancia a favore del rugby? non è solo botte da orbi e lividi.

Assolutamente si, per me è stato terapeutico. Quanto meno all’inizio. Poi quando entri nel professionismo e inizi a prendere botte da persone più grandi di te ed è normale farsi male, come in tutti gli sport di contatto d’altronde.

E poi c’è il famoso terzo tempo…

Beh si, quello puoi farlo anche in carrozzina con una gamba rotta. Non vedi l’ora che finisca la partita per mangiare e bere insieme agli avversari con cui ti sei scontrato in campo e con cui, magari, hai avuto anche qualche scambio di opinione non proprio pacifico, per usare un eufemismo.

Quali sono i tuoi ricordi più belli della carriera da rugbista?

Ogni momento è stato bello a modo suo, ad iniziare dalle prime trasferte in pullman quando eri alle giovanili. Ora sai che sono dieci minuti di macchina, ma all’epoca ti sembravano un’epopea. Poi quando le cose sono diventate più serie ogni partita, vittoria o sconfitta, è stata bella perché giocando tra i professionisti andavi sempre a scontrarti con giocatori molto forti.

Carriera che ti ha portato anche in Nuova Zelanda. Com’è giocare a rugby nella patria degli All Blacks?

Il periodo in Nuova Zelanda è stato il più divertente perché lì il rugby, pur essendo di un livello altissimo ha conservato il suo carattere amatoriale, leggero. Il rugby è lo sport nazionale, ma è rimasto pur sempre uno sport, non una ragione di vita. E credo che dovrebbe essere sempre così.

Lasciata la palla ovale ti sei messo dietro ai fornelli alla scoperta del cibo di strada italiano. Che legami ci sono tra rugby e street food?

In realtà tutto è partito da una mia passione personale per il cibo di strada. Forse un legame lo si può trovare con il viaggio. Nelle varie trasferte che ho affrontato quando giocavo, ho avuto il piacere di scoprire culture dominate dal cibo di strada e così ho iniziato ad esplorare questa grande ricchezza del nostro Paese.

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FIGLI DI UN DIO MINORE – Alla scoperta del mondo fangoso della palla ovaleultima modifica: 2015-05-30T20:16:32+02:00da pro276
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