Caro 2020, lettera aperta ad un anno di merda.

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Caro 2020,

una volta scrivevo con più dedizione, preparavo gli articoli, raccoglievo appunti e materiale, provavo a non cadere negli artifici un po’ da paraculo come diari o lettere. Alla fine, per un motivo o per l’altro, è da un po’ che non scrivo davvero. Le motivazioni sono tante e le scuse probabilmente anche di più. Questa lettera finta mi sono messo a scriverla senza scaletta e senza appunti, sull’onda di ricordi e sensazioni, quindi, al di là di ogni cleuasmo, non so se riuscirò a farlo “parare” da qualche parte.

Caro 2020, finalmente ci siamo, finalmente arriva Dicembre e si inizia a fare il classico conto alla rovescia per le vacanze e per le feste. Mai come quest’anno saranno più vacanze che feste. Di festeggiare voglia non ce n’è troppa e possibilità probabilmente anche a meno. Finalmente arrivano le vacanze che quanto meno restituiscono un po’ di normalità ad un anno che normale lo è stato per meno di due mesi. Sarà normale rimanere a casa e stavolta disoccupazione, DaD e smartworking non c’entrano troppo. Finalmente si sta a casa perché è Natale. Eh sì, sarà un Natale a distanza per tante famiglie, madri e padri con i figli fuori casa, nonni e zii che non rivedranno i nipoti. E sì, il DPCM, questa sigla che prima usavamo solo per gli esami di Diritto Costituzionale ed ora è così familiare a tutti, permetterebbe ricongiungimenti familiari, ma la sensazione è quella che sarebbe davvero il caso di non abbassare la guardia, senza scomodare tutte le persone che i propri familiari non li rivedranno più. Questa è una motivazione fin troppo retorica che forse è meglio tenere da parte, senza strumentalizzare le morti per animare il dibattito politico.

Finalmente si tirano le somme su un anno che mai ci saremmo immaginati. Dodici o tredici mesi fa si parlava di questo virus della Cina, una delle tante tragedie da secondo o terzo mondo. Sembrava la classica notizia più o meno gonfiata, una notizia dai contorni poco chiari, in un mondo dell’informazione che fa presto a gonfiare bolle che una volta esplose si rivelano per la loro natura: inconsistenti a e impalpabili. E così Gennaio è andato via tra notizie e numeri che poco riuscivamo a percepire e di cui, in tutta onestà, poco ci interessava, come per tutte le tragedie che sono geograficamente distanti da noi. Sì, c’era il rischio percepito che qualcosa stesse arrivando. Però, insomma, siamo l’Italia, siamo l’Europa, non ci faremo prendere d’assalto come la Cina, non siamo mica dei poveracci come loro che mangiano pipistrelli e vivono ammassati. Poi arriva Febbraio, l’ondata invisibile si avvicina, ma è ancora qualcosa che la gente comune non percepisce. C’è giusto qualche squallida caccia al Cinese qua e là, ma è risaputo che non servono troppi pretesti per essere pessime persone. Alla fine nell’ultima settimana qualcosa cambia. La notizia arriva di venerdì: abbiamo il Paziente 1. L’incubo diventa realtà, ma quale realtà? La realtà che davano i numeri era confortante. D’altronde, dai, Codogno, Casalpusterlengo e qualche altro paesino del Lodigiano. A parte chi ci vive e chi, come me, ci gioca a rugby, nessuno sa nemmeno dove metterli su una mappa questi posti. Peccato che sia anche la tratta che collega Bologna, Parma, Piacenza a Milano, quella Milano in cui migliaia di pendolari si riversavano e che proprio non si poteva fermare. I numeri e le statistiche sono fantastici, danno risposte univoche e non sbagliano mai. Però, bisogna fare le domande giuste. E in un’economia globale, capitalista e consumistica come la nostra la domanda è assomigliata fin troppo e fin troppo spesso a “come facciamo a tenere tutto aperto?”. Sia chiaro, fare altre domande avrebbe dato altre risposte, ma difficilmente esiti diversi. La realtà è che un mondo in cui si vive al di sopra delle proprie possibilità, ipotecando guadagni e redditi futuri, non era pronto a gestire una cosa del genere.

Con la fine di questo 2020 la sensazione è quella che la parola lockdown, così attuale e così familiare da poter essere considerata la vera parole chiave di questo 2020, anche più di lievito di birra, verrà sempre più spesso associata a verbi al passato. Magari ci sarà una terza ondata, magari no. Magari ci saranno altre soluzioni. Magari il vaccino sbloccherà davvero la situazione. Sicuramente non a Gennaio, non subito. Lo dice il decreto e lo dice la logica. Non si spezzerà il cerchio di restrizioni, autocertificazioni, zone rosse sempre più grandi che da macchie in Lombardia e Veneto si sono trasformate ben presto in uno stivale fin troppo simile all’Italia. È iniziato come se fosse una cosa passeggera, un paio di settimane, magari un mese, chi può lavora da casa, si esce il minimo indispensabile, ogni tanto Conte in TV aggiunge qualcosa, ci si inventano apertivi social, flash mob, si riscopre la solidarietà nazionale. Insomma, una cosa un po’ strana, un misto di buona volontà, ottimismo, arte di arrangiarsi tutta italiana che ci ha fatto partire di slancio. Poi man mano, a colpi di dirette, la fine si spostava in avanti. Era chiaro a tutti che non si sarebbe arrivati a una riapertura prima delle feste di aprile o del ponte di Giugno. Poi è arrivata l’estate, siamo andati al mare, qualcuno in discoteca, tutti al ristorante, tutti in Salento o in Sicilia, anche più degli anni scorsi. La rivincita contro il virus, contro la dittatura delle mascherine, contro leggi e disposizioni cattive e liberticide. Una vendetta, stupida come tutte le vendette. Una rivincita a-morale: “virus di merda, ci hai rotto le palle per tutta la primavera, adesso te la facciamo vedere noi”. Le voci di chi chiedeva responsabilità sono rimaste inascoltate, ignorate e accantonate come canti di uccelli del malaugurio. Tutto questo, in realtà, serviva, ce n’era bisogno, bisognava evadere e bisognava a scappare, bisognava concedere ristoro ai lavoratori, soprattutto stagionali, alle discoteche e ai ristoranti. Tutto giusto, ma qualcosa è mancato: la chiarezza, l’onestà intellettuale, la schiettezza di dire “Abbiamo bisogno di riaprire il Paese, per dare respiro economico alle casse dello Stato e ai portafogli degli imprenditori e per dare sollievo a milioni di italiani dopo mesi duri. Voi, nel frattempo, aiutateci a non pagare un prezzo troppo alto.” Ancora una volta, le cose non sarebbero cambiate. Senza il morso della paura la guardia si abbassa, è umano. Però, quanto meno, si sarebbe dato il giusto nome alla realtà e ci sarebbe evitata la caccia all’untore contro “i giovani”, “la movida”, “le discoteche”…

Mentre questa lettera si compone, in TV si discute di colori, di zone, di riaperture, di spostamenti. La storia non si è conclusa. A mezzanotte del 31 Dicembre non accadrà nulla se non il solito brindisi, meno convinto, più triste, più rassegnato e disilluso, magari dedicato alla memoria di chi non c’è più. Ognuno avrà una lista di nomi da tenere a mente, per colpa del Covid o per colpa di tutte quelle altre situazioni che questa pandemia ci ha fatto quasi dimenticare. Alla fine di questo 2020 non c’è una morale. Quella è per le favole, e non è questo il caso. Non c’è un lieto fine, il Covid non finisce con il 2020, le perdite non tornano indietro, i danni non si riparano, se non a fatica e con tanto duro lavoro. Per questo motivo queste righe non sono cronaca. Questa è solo una lettera per mettere insieme pensieri e ricordi, magari per provare a rielaborare lutti e dolori. Forse è quasi un voto o un simbolo voodoo sul quale concentrare tutto lo schifo di questo anno di merda, con la speranza che questo rito sgangherato e inconsapevole lavi ogni rischio di “peccato originale” dal 2021 e saldi ogni debito residuo. È una lettera scritta da me, per me e indirizzata ad un anno di merda, flagellato da un virus che non porta neanche il suo nome, che però ha segnato l’immaginario di tutte quelle generazioni che la guerra l’hanno conosciuta tramite i resoconti da posti lontani, almeno socialmente. Ha acceso un faro enorme sulle fragilità di una società che vive al di sopra delle proprie capacità, che non può fermare la sua corsa al lavoro, alla produzione e al consumo senza finire sul lastrico. Ha acceso un faro enorme sulle debolezze di un sistema politico e sanitario, sulle debolezze di una popolazione che sente il bisogno di inseguire il leader, politico, culturale o comunicativo, che propone la ricetta più semplice, più comoda o che ci fa sentire migliore degli altri, siano essi sudditi della dittatura sanitaria o complottisti vari. Ha messo in luce una società in cui chiedere e offrire aiuto psicologico dovrebbe essere la norma e invece continua ad essere una cosa strana, da dire a bassa voce, mentre su Instagram si fa solita gara a far vedere quanto si sta bene, quanto siamo “fit” ed “healthy” con i nostri allenamenti tutti giorni, quanto siamo “positive” e quanto siamo bravi e proattivi.

Caro 2020, lo confesso, non so come chiudere questa lettera e rischio di dilungarmi inutilmente allora la chiudo nel modo più personale, dicendo tutto quello che di personale resta da dire. Sono stato male in questo 2020. È stato, probabilmente, l’anno più difficile della mia vita, ho nascosto nel cibo e nella cucina le angosce del primo lockdown. A Giugno sono stato nella peggior forma fisica di sempre, io che in forma non lo sono davvero mai stato. Ho nascosto nella comodità di tuta e felpa tutto il peso di lavorare da solo davanti al pc, di sentire i colleghi solo su Skype, senza una pausa caffè. Ho nascosto dietro ai “dai tutto sommato con il lavoro mi è andata bene” tutta la mia rabbia nei confronti di una routine che perdeva senso ogni giorno di più, ogni volta che ci si addentrava in dettagli e piccolezze futili, call dopo call.

Ormai è chiaro, non ne usciremo migliori, lo abbiamo visto in estate, lo vediamo adesso e in fondo lo abbiamo sempre saputo. Almeno non come umanità. L’unica cosa che possiamo fare è provare a uscirne più consapevoli, consapevoli di essere fragili ed esposti, ma anche consapevoli che alla fine in un modo o nell’altro ne usciremo.

In Fede,

Giuseppe Prontera

 

Caro 2020, lettera aperta ad un anno di merda.ultima modifica: 2020-12-21T12:42:38+01:00da pro276
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