Un po’ di chiarezza su Grexit e Referendum.

GREECE-POLITICS-SYRIZA-TSIPRAS

Con la fine del campionato e il calcio mercato non ancora entrato nel vivo, lo sport nazionale degli Italiani, almeno sui social network, pare essere diventato l’economia estera, con una predilezione particolare per quella greca. Questo interesse, di per sé è tutt’altro che negativo, perché pone le basi per una riflessione importante. Il problema è che quando si toccano determinate questioni c’è sempre il rischio semplificare troppo alcuni problemi, senza. “Euro sì o euro no” è tutt’altro che un modo edificante di porre la questione, non si può parlare di politica ed economia sparando slogan diretti alla pancia delle persone. È necessario, prima di ogni ulteriore riflessione, chiarire alcuni concetti. Innanzi tutto, anche se il debito greco è per la maggior parte relativo al sistema bancario privato, è interesse del cittadino che sia lo Stato ad impedire che le banche falliscano. Gli stati, di norma, si impegnano a garantire i risparmi dei comuni cittadini, per incentivare gli stessi a immettere il proprio eccesso di liquidità nel mercato finanziario, senza il timore di perdere i propri risparmi. La garanzia statale non è un favore dei governi alle fantomatiche lobby dei banchieri che governano il mondo, come molti si affrettano a dire. L’adozione di questa misura è di importanza fondamentale per il buon funzionamento dei mercati finanziari e valutari. La colpa dei vari governi è di non aver vigilato sulle storture del sistema. Un altro tema che scalda molto gli animi dei commentatori è quello dell’Austerity, anche perché riguarda da vicino il popolo italiano. Effettivamente, è vero che l’austerity rischia di soffocare l’economia invece di aiutarne il rilancio, e il ventesimo secolo ce lo dimostra. Semplificando molto gli accadimenti, la risposta ai danni della Prima Guerra Mondiale fu, in buona approssimazione, una manovra economica restrittiva, che ha ridotto l’accesso al credito per drenare l’eccesso di liquidità. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie all’esperienza del recente passato, la Conferenza di Bretton-Woods deliberò una strategia di carattere più espansivo, eliminando le riparazioni di guerra a carico degli sconfitti per evitarne il default e agevolando l’accesso a vari finanziamenti. Gli effetti delle due manovre sono sotto gli occhi di tutti. Nel primo caso si è giunti alla crisi del ’29 e, in buona sostanza, al secondo grande conflitto bellico del secolo scorso. La manovra di Bretton-Wood ha garantito all’Europa e agli Usa una crescita economica molto importante. Tralasciando ogni altra considerazione in merito, appare chiaro che i soli tagli non siano sufficienti a far ripartire l’economia, ma non si può neanche ritenere sostenibile il finanziamento di un apparato inefficiente. Ci sono alcune criticità, come il prepensionamento a 52 anni o la spesa militare al 2,3% del PIL, ben oltre la media europea, che devono assolutamente essere risolte, altrimenti è come continuare a mettere benzina in un serbatoio bucato. Rimanendo nell’ambito della metafora in questione, è importante impedire che il motore si spenga, ma occorre sistemare il serbatoio al più presto, anche se comporta un esborso non indifferente. Il piano di tagli alla spesa pubblica, purtroppo, non è indolore, ma se attuato con le adeguate misure cautelari può essere meno dannoso di quanto non si voglia far credere. Passando al referendum di Domenica 5 Luglio, c’è da considerare che, se da un lato si ricorre ad uno degli istituti che incarna al meglio l’ideale di democrazia, dall’altro rischia di non essere lo strumento più adatto per valutare una proposta dall’alto contenuto tecnico-scientifico. Il testo del referendum, che non è un referendum sull’uscita dall’Euro o dall’Unione Europea come da più parti proclamato, chiedeva di accettare o meno la proposta di manovra dei creditori. L’uscita dall’Euro non è oggetto della votazione e neanche una sua conseguenza diretta. La Germania e i suoi alleati non possono escludere un Paese dall’Eurozona in quanto ciò non è contemplato da nessun trattato dell’Unione Europea. L’uscita su istanza del popolo greco potrebbe, in teoria, essere fattibile, grazie ad un cavillo giudiziario che prevede la possibilità di impugnare i trattati internazionali che non contemplino esplicite clausole di recesso. Un altro aspetto che occorre ricordare è che, a meno che non si vogliano tirare in ballo strampalate teorie complottiste, il default della Grecia non è nell’interesse di nessuno, se non di qualche ristretta cerchia di operatori economici, estranei alle vicende politiche. Il creditore, per tutelare i propri interessi, preferisce che il debitore rimanga economicamente in vita.  La diplomazia internazionale, seppur in un contesto totalmente diverso, è stata in grado di risolvere questioni economiche e politiche anche più gravi, dalle due ricostruzioni post belliche alla crisi del ’29. Se si riuscisse ad affrontare il problema senza l’eccessiva partigianeria che ha animato e, probabilmente, distorto il dibattito, la strada per una soluzione condivisibile sarebbe ancora percorribile. Fin quando ci si concentrerà tra lo scontro di civiltà, tra i “buoni greci” e i “tiranni di Berlino e di Bruxelles” o tra i “produttivi ed efficientissimi abitanti del nord Europa” e i “fannulloni mascalzoni del sud”, non si potrà mai prestare la giusta attenzione a quello che dovrebbe essere il reale centro del dibattito: come risollevare la Grecia dalla crisi nonostante gli errori del passato, senza sconti, ma anche senza uccidere un popolo in nome della demagogia della Merkel che vuole difendere la virtuosa economia tedesca e di quella degli euroscettici che cercano di guadagnare consensi politici con queste campagne di informazione sommaria.

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