“A noi, la dittatura, ci piace…”

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“E diciamolo una volta per tutte che noi la dittatura la vogliamo. Ma no perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace.” Questo è un adattamento della citazione, tratta dal famoso discorso dopo la morte di Peppino Impastato, che rende molto bene quello che, in realtà, è uno degli atteggiamenti più diffusi riguardo alla democrazia e alla dittatura, de iure o de facto. La dittatura o la riduzione della democrazia, nelle sue diverse forme, ha un volto rassicurante e attraente, non solo per i nostalgici del Ventennio o della Grande Madre Russia. La dittatura ci rassicura, riduce i rischi e riduce lo sforzo a cui siamo chiamati, riduce il nostro potere ma anche le nostre responsabilità (qui la citazione è molto meno dotta ma, comunque, efficace). In fondo, anche i più democratici, di fronte alla prospettiva di una fantomatica quanto utopica “dittatura giusta”, ispirata dai principi condivisibili ed equilibrati, farebbero fatica a non accettare. Credere nel leader carismatico, quello che pone le questioni sul piano della credibilità personale è comodo, mentre la democrazia richiede molto, molto impegno, perché richiede di entrare nel merito dei fatti e mettere in discussione le proprie convinzioni.

Spesso, dopo alcuni eventi particolari come Brexit, colpo di stato in Turchia, referendum, elezioni di candidati o partiti improbabili, si leva da più parti, nei salotti televisivi o sui social, il coro a sostegno della riduzione del diritto di voto o al ripensamento del suffragio universale, in quanto non conforme alla società moderna e al vasto numero di analfabeti funzionali in combinazione con la possibilità di influenzare le persone più efficacemente grazie ai social network. È questo, in realtà, il vero attacco, spesso solo provocatorio, nei confronti di una democrazia, quella come la intendiamo oggi, giudicata fallimentare in quanto incapace di evitare che il risultato delle votazioni sia condizionato da voti non perfettamente consapevoli. La frase più ricorrente, riportando qualche commento stralunato sotto al classico post o link bufala, magari creato ad arte per attrarre i commentatori non proprio svegli, è “il suo voto vale quanto il tuo”.  Effettivamente, non è infrequente trovarsi di fronte ad un cortocircuito del sistema democratico. In Italia, dove la percentuale di analfabetismo funzionale si attesta poco al di sotto del 50%, la percentuale di voti poco consapevoli o di voti influenzati da una propaganda, se non ingannevole, quanto meno non perfettamente corretta, rischia di essere considerevole. Ovviamente questo non significa che la metà dei voti sono sbagliati, per tutta una serie di motivi, tra cui il forte astensionismo, il fatto che non tutti votano in base alla propaganda e altro ancora. Il dato vero non è facilmente stimabile. Quello che è certo, però, è che effettivamente ci sia un’influenza molto rilevante ai danni di chi partecipa in modo attivo ed informato alla vita culturale, sociale e politica del Paese.

Ma è un fallimento della democrazia? Serve un necessario ripensamento del suffragio universale?

Più che un fallimento, forse è il caso di parlare di errore nei presupposti. La democrazia per poter funzionare ha bisogno di una cittadinanza attiva ed interessata, ma, soprattutto, informata ed istruita, capace di comprendere le implicazioni socioeconomiche e politiche del proprio sostegno ad un determinato schieramento politico o ad una determinata campagna referendaria. Ora, come è ovvio, non è possibile essere in grado di avere un parere sufficientemente informato su tutti gli argomenti ed è proprio a questo che serve la democrazia rappresentativa. Non tutti i cittadini possono fare e sapere tutto. La collettività paga, e anche profumatamente, gente per prendere decisioni di carattere strettamente tecnico o che necessitano di uno studio molto approfondito. Un operaio, un medico, un economista, un filosofo, un qualunque cittadino che ha studiato e si è specializzato nel proprio settore, non può, anche solo per una questione puramente temporale, specializzarsi in tutta quella serie di materie che servirebbero a giudicare, ad esempio, le conseguenze dell’uscita dall’Unione Europea o l’impatto economico e ambientale di una determinata politica energetica. E anche per accettare questo stato di cose serve essere istruiti.

La soluzione forse più efficace, sicuramente più rapida, sembrerebbe essere la dittatura illuminata o l’esclusione di alcune fasce della popolazione dall’elettorato, ma come in ogni campo, non esistono soluzioni rapide ed efficaci, delle due l’una. La democrazia può essere paragonata all’esercizio fisico. Se l’obbiettivo è il fisico perfetto hai due scelte: lavorare sodo, educare il tuo corpo mediante esercizi specifici e costanti, anche a costo di sopportare delle fasi in cui lo sforzo sembra non dare risultati, oppure ricorre a scorciatoie di vario genere. Non si possono avere un parlamento e un governo che siano espressione di una minoranza illuminata e inviso alla maggior parte del popolo. Non esistono vere scorciatoie per costituire un popolo davvero democratico, perché se ci sono elettori non in grado di esprimere un voto consapevole, il compito dello Stato e della società è includere e non escludere, tramite una formazione adeguata e un tessuto sociale che limiti i casi di disagio estremo per arginare la proliferazione dei consensi per partiti e movimenti populisti.

L’unica via davvero percorribile è l’educazione nel suo complesso. Il processo educativo deve portare anche alla sincera condivisione dell’idea che in democrazia, per quanto si possa essere convinti delle proprie idee, non sempre è possibile applicarle perché ci sono persone che hanno idee diverse e tale diversità non è frutto di errori concettuali o di ignoranza, ma semplicemente frutto di una diversa concezione della vita. Altrimenti la dittatura, in ognuna delle sue forme, resterà sempre la soluzione più comoda, l’asso della manica al tavolo da gioco, il bigliettino da cui sbirciare all’esame.  Più che il sistema democratico, ad aver fallito sono il sistema sociale e il sistema scolastico-universitario. E se è vero che, al giorno d’oggi, l’ignoranza è più una colpa che una sfortuna, è altrettanto vero che la colpa non è sempre e solo dell’ignorante, in quanto non tutti hanno gli stessi mezzi e le stesse opportunità. Alla fine, la fame nel mondo si combatte insegnando a chi non ha niente a produrre il proprio cibo o fornendo l’occorrente necessario, non eliminando chi non ha nulla da mangiare.

Giuseppe Prontera

“A noi, la dittatura, ci piace…”ultima modifica: 2016-07-20T18:20:58+02:00da pro276
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