Dal diario di un aspirante giornalista: un sogno chiamato Six Nations.

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Parto subito con una premessa abbastanza doverosa, questo articolo lo scrivo trascurando due capisaldi del giornalismo così come te lo insegnano. Questo è un articolo senza schema, scritto di getto, e molto poco impersonale. Bene fatta questa premessa, butto giù una statistica a caso: al 90% sarà un articolo molto poco riuscito, che sarà inutilmente sentimentale o stucchevole. Se becco il 10%, però, credo che possa diventare uno dei miei pezzi migliori.

Questo articolo lo scrivo un po’ sul divano di uno dei miei più grandi amici che abita a Roma e un po’ sul Frecciarossa che mi riporterà a Piacenza. Proprio Roma è il teatro di uno dei week end più belli della mia vita. Chi mi conosce sa che due mie grandi passioni sono il rugby e il giornalismo e questi due giorni sono stati davvero il coronamento di un sogno.

Il 14 Febbraio 2016, oltre a San Valentino, oltre a Fiorentina-Inter, oltre ai postumi di Juve-Napoli, è stato il giorno di Italia-Inghilterra, seconda partita del Sei Nazioni, quel magico torneo di rugby, che per antichità se la gioca solo con la FA Cup, dove la tradizione continua a farla da padrone, dove a parte gli ingressi di Francia e Italia, si può ancora respirare lo spirito degli inizi. Non che per gli italiani sia foriero di chissà quale bel ricordo: qualche bella vittoria, magari contro i cugini d’oltralpe, qualche bella prestazione nei templi sacri del rugby europeo e poco più. Eppure, resta sempre uno spettacolo. La partita contro l’Inghilterra resterà negli annali come la classica sculacciata di una big alla povera Italia, una squadra che ce la mette tutta, che si aggrappa al suo capitano, Sergio Parisse, autentica eccellenza del rugby mondiale, ma alla fine, quando finiscono le energie mentali finisce per crollare di botto. È una classica partita del Sei Nazioni italiano, purtroppo. Ma, ovviamente, non è per questo 9-40 che questa giornata rimarrà per sempre nel mio cuore.

Italia-Inghilterra è stato un concentrato di prime volte e debutti: la mia prima volta all’Olimpico, che quando è pieno ti toglie il fiato e quando è vuoto, e puoi mettere i piedi sul suo manto erboso, forse anche di più, la mia prima volta a vedere la Nazionale dei grandi allo stadio, la mia prima partita del Sei Nazioni dal vivo, la mia prima volta in un media center così importante come quello dell’Olimpico, in mezzo a fotografi e giornalisti di un certo livello, da Munari e Raimondi, fino a Stefano Benzi, che ha accompagnato la mia passione infantile per la WWE sulla prima Sportitalia, la prima volta che davvero mi sono reso conto che le notizie sulla partita, la cronaca e le dichiarazioni, non le avrei lette su OnRugby, sul sito della Federazione o su altri canali specializzati, ma sarei stato io a darle su Gazzetta del Rugbista e, magari, qualcuno le avrebbe lette solo grazie alle mie parole.

Questo weekend faticoso e bello è iniziato tanto tempo fa, probabilmente sui banchi delle superiori, quando mi sono reso conto che, alla fine, a scrivere non me la cavavo così male. E allora, nel tempo, si è anche fatta strada l’idea di provare a camparci con il giornalismo, ma sono prevalse altre considerazioni e ho preferito seguire altre passioni, che magari mi garantiranno un futuro più stabile. Però, una passione vera, una passione in cui magari te la cavi anche, è difficile da mettere da parte. Così, quando ho finalmente iniziato a giocare a rugby, nel Gossolengo, mi sono fatto subito avanti per scrivere gli articoli della squadra. Poi è arrivato il giornalino del Collegio per il quale ho anche intervistato Chef Rubio. Poi è arrivato un articolo, scritto di getto come questo, sull’ennesimo scandalo della palla rotonda, il solito colpo ad un pallone sempre più bucato e sgonfio e quella proposta fatta ad una delle più belle pagine sul calcio, “delinquenti prestati al mondo del pallone”, una pagina che intende il calcio come dovrebbe essere inteso. Gli chiesi se volessero pubblicare il mio articolo e loro accettarono. È in questo momento che nacque l’idea di questo blog: un blog in cui raccogliere tutto quello che scrivo per varie occasioni. A dire il vero, all’inizio non pensavo a particolari sviluppi; mi bastava avere un supporto dove far leggere a tutti quello che scrivevo e pavoneggiarmi un po’ quando sarebbe arrivato qualche complimento, tutto qui. E così faccio il blog, creo la pagina Facebook associata e comincio a mandare qualche pezzo in giro per farmi un po’ di pubblicità. Tra silenzi e cortesi rifiuti, arriva la controproposta di Gazzetta del Rugbista, pubblicare l’articolo sul loro portale e poi collaborare con loro. Ovviamente accetto e si parte subito: Mondiali under 20, interviste a tutti gli allenatori dell’Eccellenza, cronache di Eccellenza e Pro12, nel mezzo un’esclusiva con le dichiarazioni di Coach Guidi dopo una vittoria e il ruolo di addetto stampa per il Piacenza Rugby. E poi, è arrivata la possibilità del Sei Nazioni, un’opportunità da cogliere al volo, una sorta di premio all’impegno che mi sono concesso. Descrivere le emozioni del pass con nome e foto, dell’Olimpico in fase di allestimento, del varcare la linea bianca che delimita il rettangolo di gioco, della Nazionale che si allena a 10 metri da te, della conferenza pre-partita, dell’arrivo in sala stampa al mattino, della fatica dei 26.000 passi e dei 20 km a piedi in due giorni, del pranzo per gli addetti ai lavori con tutti gli altri giornalisti, del tunnel che porta alla tribuna stampa, dell’ingresso in uno stadio con oltre 70.000 altre persone e gli occhi di mezza Europa puntati verso quel campo, dell’annuncio delle formazioni con il boato per i soliti Parisse e Castrogiovanni, gli azzurri più conosciuti, del pubblico che canta gli inni del calcio d’inizio e della speranza di assistere alla storia che si infrange al cinquantesimo per quel maledetto intercetto di Joseph, della conferenza post partita e della corsa a completare l’articolo per provare ad anticipare gli altri, le emozioni di tutto ciò non sono facili da descrivere. È qualcosa che difficilmente le parole possono rendere: chi sa di cosa sto parlando non ha bisogno di leggerlo, chi non lo sa non può capirlo.

Ora, dopo aver superato la prima pagina di Word, è il caso di iniziare a tirare le conclusioni, per non infrangere anche la regola che impone di scrivere articoli brevi per il web, altrimenti il lettore si annoia. Magari posso concludere provando a spiegare dove voglio arrivare con questo articolo ma la verità è che proprio non lo so. Sto scrivendo perché sento la voglia e il bisogno di farlo, sento il bisogno di comunicare e sento il bisogno di sfruttare questo foglio bianco per mettere in ordine e dare una sorta di unità logica a tutto quello che mi è accaduto in questi ultimi mesi. Forse potrei buttare giù una chiusa motivazionale e dire che bisogna seguire i propri sogni, anche quando si prendono strade diverse, che bisogna credere in sé stessi e nelle proprie capacità e cose del genere, però, sono discorsi così inflazionati dall’abuso che se ne fa,  che non credo sia il caso di scomodarli. Questo pezzo credo sia nato venerdì mentre preparavo la valigia e si è strutturato grazie a quella strana sensazione che ho provato mentre lasciavo lo stadio: quel misto di soddisfazione per aver fatto per bene il proprio dovere, di tristezza perché era già finito e di voglia di farlo ancora. Probabilmente, sono caduto in pieno in quel 90% di cui parlavo nell’introduzione, ma questa volta davvero non importa perché ho scritto per il gusto di farlo e per il gusto di essere, magari per tutta la vita, un aspirante giornalista.

Giuseppe Prontera.

Dal diario di un aspirante giornalista: un sogno chiamato Six Nations.ultima modifica: 2016-02-15T22:35:51+01:00da pro276
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